Imhett si agitava nel
sonno, senza posa: il suo corpo magro e nervoso si muoveva a scatti, a destra e
a sinistra; ad ogni movimento convulso rischiava di cadere dalla cuccetta.
L’alto e il basso si confondevano nella sua mente, come se la navetta adibita
all’esplorazione non fosse dotata del controllo pressione a 1G; le braccia si
tendevano ad afferrare l’aria riscaldata a 20° centigradi, i piedi scalciavano
contro il bordo inferiore del ‘loculo’ adibito a cuccetta, la bocca si apriva e
si chiudeva come se stesse conversando con un amico invisibile.
La donna stava sognando:
ombre incerte e fantasmi evanescenti popolavano il suo incubo. Allungava le
mani a cercare di afferrarli, ma si dileguavano prima che le dita potessero
stringerli; muoveva le labbra a pronunciare frasi che si disperdevano nell’aria
con un suono strozzato, senza riuscire a stabilire un contatto. Si svegliò, di
botto, e impiegò qualche secondo a rendersi conto di dove si trovava. Sedette
sulla cuccetta incassata nella paratia, rinunciando ad usare le cinghie di
contenzione per concedersi un supplemento di sonno sereno. Non sarebbe stato
sereno, in ogni caso: il suo cuore batteva più forte di uno scarico a risucchio
e il suo respiro era affannoso come se indossasse un antiquato scafandro.
Pazienza, si disse, tanto tra un paio d’ore sarò a destinazione.
Visto dalla navetta, il
pianeta somigliava alla Terra, con le sue montagne dalla cima aguzza e gli
oceani che delineavano le forme quasi geometriche dei continenti. I colori,
però, erano singolari: rosa slavato l’erba alta, blu cobalto gli arbusti, viola
le acque che serpeggiavano lungo la pianura, scendendo verso il mare in
eleganti, sinuose curve, giallo ocra le cime dei monti. Era come se un bambino
terrestre avesse deciso di colorare il mondo a modo suo.
Se dovesse nevicare,
verrebbero giù dei fiocchi rosso sangue?, si chiese Imhett, mentre indossava la
tuta pressurizzata e controllava il casco. Sulle mappe galattiche veniva specificato che Grostji
era stato colonizzato, molti anni prima, ma la composizione dell’atmosfera non
la convinceva del tutto: c’erano troppo ozono e poco azoto, per cui aveva
deciso che era meglio non correre rischi.
La discesa fu lenta; la
navetta si posò sul pianeta dolcemente, come il petalo di un fiore che cade a
terra pian piano. La donna indossò il casco, controllò un’ultima volta la
scorta di ossigeno, poi si decise a premere il pulsante di apertura del
portello principale. Con un sibilo acuto, l’aria uscì dall’apertura esagonale,
mentre il portello veniva risucchiato nella parete esterna dello scafo; la
scaletta si svolse palmo a palmo, raddrizzandosi man mano che si avvicinava al
suolo.
Gettando un’occhiata
circolare ad osservare la radura sulla quale aveva fermato il suo mezzo di
trasporto, Imhett percorse la scaletta ormai irrigidita nella sua posizione più
funzionale. Un sorriso le increspò le labbra sottili quando vide una macchia di
fiorellini marrone cupo, che invece delle foglie esibivano una serie di
filamenti blu elettrico che si intersecavano fra loro.
“Pianeta interessante”,
biascicò la donna. Come tutti gli astronauti abituati a rimanere da soli per
lunghi periodi, aveva contratto l’abitudine di parlare, di tanto in tanto, con
se stessa.
Lasciò spaziare lo
sguardo fino all’orizzonte, delimitato da una macchia di alberi e arbusti dello
stesso sconcertante blu scuro, e schioccò le labbra: non si scorgeva nessuna
traccia della passata attività umana. Decenni fa, in quel luogo sorgeva un
insediamento umano composto da una lunga casa comune suddivisa in appartamenti
singoli, un enorme capannone che fungeva da magazzino, dei campi coltivati, e
una chiesa ricavata dallo scafo dell’astronave che aveva trasportato i coloni
su Grostji.
Imhett aveva studiato le
vecchie mappe, sia spaziali che geografiche, visionato i filmati che i coloni
avevano inviato nel corso degli anni, letto i rapporti degli esploratori che
l’avevano preceduta. Non aveva trovato, però, la chiave che l’aveva condotta
fino all’avamposto più estremo della Galassia: la causa dell’estinzione in
massa dei coloni.
Le ipotesi erano
molteplici, ma nessuna di esse era stata ancora verificata in loco. Gli
esploratori si erano limitati a fotografare il pianeta da una distanza di
sicurezza, mappando il territorio a mano a mano che la natura si prendeva la
rivincita sull’uomo. I campi si erano allagati, le costruzioni prima erano
crollate e poi si erano sbriciolate; la vegetazione aveva ripreso possesso, a
poco a poco, del sito in cui sorgeva l’insediamento, mentre una specie mutante
di batteri danneggiava irreparabilmente lo scafo, facendolo sprofondare nel
terreno.
La donna era lì per
scoprire la causa della distruzione della colonia. Si rifiutava di
ripercorrere, con la mente, le ipotesi degli scienziati, quelle dei costruttori
dell’astronave e dei finanziatori della spedizione: voleva trovare da sé la soluzione
di quell’enigma.
Doveva cominciare a
darsi da fare per disseppellire qualche resto della colonia annientata: era
sicura che non tutto il materiale era sbriciolato o completamente distrutto. Se
i suoi calcoli erano esatti, avrebbe trovato almeno un frammento di scafo, un
mattone, una suppellettile, un osso umano, insomma qualcosa che ogni archeologo
degno di questo appellativo avrebbe ripulito, catalogato e inventariato.
Disponeva di un’autonomia
di due ore d’ossigeno e di tutti gli attrezzi che le occorrevano. Cominciò a
scavare nell’area in cui, secondo le informazioni in suo possesso, una volta si
ergeva la casa comune, un complesso rettangolare molto lungo e piuttosto stretto,
costruito in mattoni di argilla cotti al forno. Dopo aver spalato terriccio ed
erba per una buona mezz’ora, trovò il primo reperto: un piatto sbreccato, di
ceramica non decorata. Incoraggiata da quel ritrovamento, continuò il suo
lavoro con maggiore lena.
Quando la provvista di
ossigeno si esaurì, costringendola a rientrare nella navetta, aveva
collezionato alcune suppellettili, nessuna delle quali intatta, e una minuscola
statuina di creta raffigurante un essere alato. Dispose i reperti su un ripiano,
nella cabina, ed esalò un sospiro: potevano dirle qualcosa della vita
quotidiana della colonia, ma non rispondevano certo alla domanda cruciale. Aveva
ancora circa tre ore di luce da sfruttare, per cui si rifornì di ossigeno e
riprese a scavare. All’imbrunire la sua collezione si era arricchita di un paio
di bicchieri e alcuni attrezzi agricoli, però non era affatto più vicina alla
soluzione dell’enigma.
Il giorno successivo,
Imhett portò avanti l’attività di scavo dall’alba fino notte inoltrata, con pause
di pochi minuti per rifocillarsi e trasportare i reperti nella navetta. Dopo
un’ora di lavoro, decise di liberarsi dell’ingombrante tuta e dello scomodo
casco, rischiando di respirare un’atmosfera non ottimale per poter scavare con
maggiore velocità. Sentire l’aria fresca sul viso la rese tanto euforica che
cominciò a chiacchierare da sola, ridendo per qualunque sciocchezza. Ammutolì
soltanto quando trovò le prime ossa, completamente scarnificate e imbiancate
dagli agenti atmosferici: le posò sulla piccola porzione di terreno brullo
intorno alla navetta, decisa a ricostruire almeno un intero scheletro, poi si
rimise al lavoro.
La scoperta determinante
avvenne poco prima che la donna decidesse che era giunto il momento di riposare
per la notte: un rettangolo di plastica spuntò sotto la lunga radice di un
piccolo arbusto viola. Imhett cominciò a scavare con le mani per non
danneggiare il prezioso reperto, all’apparenza intatto e sicuramente di fattura
terrestre, e portò alla luce del crepuscolo imminente la tastiera di un
antiquato computer, risalente all’epoca in cui i comandi vocali non erano stati
ancora perfezionati. Quasi un’ora dopo, trovò il CPU, e dopo un paio d’ore e
uno scavo circolare dal raggio più ampio di un metro, anche il monitor. Il cavo
di alimentazione sembrava intatto, e la batteria all’iridio aveva tutta l’aria
di essere ancora funzionante.
Trasportò i preziosi
reperti sulla navetta, e consultò gli appunti: la batteria era stata costruita
per durare oltre un secolo, e tutti i componenti del computer erano, nel
periodo della colonizzazione, all’avanguardia. Mettendolo in funzione, forse avrebbe
ottenuto qualche risposta interessante, ma era troppo stanca per farlo in quel
momento. Sbadigliando senza ritegno, si sdraiò sulla cuccetta e piombò in un
sonno senza sogni.
Il mattino seguente, a
mente lucida, Imhett cominciò ad esaminare con maggiore attenzione il computer
che era rimasto sepolto per quasi un secolo. Sotto alla tastiera era inciso uno
strano disegno: due mani unite in una stretta sormontate dal disco solare,
mentre dietro il CPU c’era un’altra incisione, una scritta che recitava
‘proprietà privata dei Fratelli della Chiesa Universale’. Batté la mano sulla
fronte alta, e scoppiò in una risata argentina: nella foga della ricerca aveva
quasi dimenticato che la città i cui reperti stava portando alla luce era stata
fondata da una comunità religiosa.
I Fratelli della Chiesa
Universale erano una via di mezzo tra intransigenti cristiani della prima ora e
puritani inglesi del millennio precedente. Ritenevano il lavoro una forma di
purificazione, pregavano almeno sei volte al giorno, si sposavano soltanto
all’interno della loro cerchia ristretta e, naturalmente, credevano di essere i
depositari della Sola e Unica Verità. “Proprio come tutti i fondamentalisti”,
commentò.
Collegò gli spinotti nei
rispettivi alloggiamenti, schioccando la lingua con impazienza, poi accese il
computer. Una scritta in giallo oro campeggiò al centro esatto del monitor: CONFESSORE AUTOMATICO INSERITO.
Incuriosita, pigiò il pulsante ENTER.
Benvenuta, sorella – benvenuto, fratello. Digita il tuo nome
e il tuo sesso.
SONO UNA DONNA. MI
CHIAMO IMHETT.
Digita i peccati che hai commesso, sorella.
Imhett rimase un attimo
pensierosa, poi improvvisò. SONO STATA EGOISTA.
Dividi il tuo cibo con i fratelli a te più vicini, prega
molto e cerca di non peccare più. Lo schermo si riempì di quadratini rosa pallido
intersecati da linee bianche, poi apparve una stella a sei punte con la scritta
ASSOLUZIONE CONCESSA.
La donna annuì con foga,
in segno di approvazione: aveva ottenuto l’assoluzione per un peccato che non
aveva commesso, e piuttosto in fretta. Decisa a scoprire i peccati dei fratelli
e delle sorelle che avevano vissuto su Grostji, cliccò sull’icona CONFESSIONI
PRECEDENTI.
Un nutrito elenco di
nomi si materializzò sulla sinistra dello schermo; accanto a ciascuno di essi
la scritta in rosso recitava CANCELLATE.
Imhett si diede
mentalmente della stupida: il confessore cancellava i peccati dalle anime dei
penitenti e poi provvedeva a cancellarle anche dall’apposito file, vincolato
dalla stessa segretezza di un sacerdote in carne ed ossa. I nomi dei defunti
coloni, però, la incuriosivano: scorse la lista fin quasi alla fine, fermandosi
solo quando una riga più lunga delle altre attirò la sua attenzione.
Quissar - fratello -
ULTIMA CONFESSIONE.
Forse il dispositivo di
cancellazione si era guastato, o un intoppo aveva impedito che anche quel file
venisse secretato, o forse… la donna smise di fare congetture e cliccò
sull’icona rossa.
Sul fondo color crema
c’era la confessione di Quissar, seguita da una serie di punti esclamativi e da
un enorme punto interrogativo.
Perdonami, mio Dio, perché ho peccato contro di te e contro
i miei Fratelli. Quando Fratello Lumiren è stato eletto Maggiore di Tutti i
Fratelli e le Sorelle l’invidia e l’ambizione si sono impadronite della mia
anima tormentata. Ho deciso di eliminare il nuovo Maggiore e tutti coloro che
avevano votato per lui introducendo una tossina sintetica nella porzione di
campo comune riservata a loro. Se soltanto non fossi stato un chimico, Mio Dio…
ora non avrei questo terribile peccato da confessare. Qualcosa è andato storto,
e la tossina si è diffusa in tutte le piante coltivate, o forse nel terreno
stesso. Ora tutti i miei confratelli sono morti, avvelenati per colpa della mia
insana ambizione frustrata, e anch’io sto per morire. Prima che le forze mi
abbandonino, invoco il tuo perdono, Padre della Chiesa Universale. Abbi pietà
di me a accogli la mia anima nel tuo Santo Regno.
La pagina successiva
conteneva due sole parole, in oro, all’interno di un cerchio rosso fuoco.
ASSOLUZIONE NEGATA.
Avvincente e ben scritto il racconto di Teresa. Anche a lei diciamo: benvenuta sulle pagine di ASIMOV.
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