La donna velata, o meglio, da come mi
sembrava nel sogno, la giovane ammantata con una specie di burka nero, mi
appariva come un idolo di altri tempi. Al suo cospetto, avevo prima un senso di
terrore e poi una profonda riverenza, un timoroso assoggettamento della mia
persona, una sensazione che avevo da bambino in chiesa, davanti alle imponenti
statue dei santi benedicenti. Diradandosi la nebbia, l’immagine della fanciulla
era affiancata da una casetta di campagna e da una quercia centenaria. Da
sveglio, mi sembrò che la casetta con la gigantesca quercia fosse stata simile
a quella lasciatami in eredità dagli avi. La casetta a due piani, con ampio
terrazzo verso Salerno, sorgeva su una collinetta non distante da Paestum.
Avevo capito che era quello l’edificio decadente da sfondo alla fanciulla che
mi visitava nei sogni, profferendo con delicata voce sempre le stesse frasi che
in italiano vogliono dire: Sono l’ombra
di te. Sono la nera Chera e non ad altri, ma a te voglio dire queste
cose: temo che non sfuggirai al
pericolo.
Quelle frasi nascevano forse dalle
profondità del cervello? oppure prendevano forma dal buio della sfera
inconscia? Avevo studiato il greco classico ai tempi del liceo e poteva essere
che a livello inconscio me lo ricordassi. In me, abitava forse un altro essere
che cercava di emergere alla vita?
Cercavo di non pensarci, ripetendomi che era
un sogno. Uno di quei sogni ricorrenti che dopo qualche mese svaniscono dalla
mente, così come arrivati. Nella Teogonia, Esiodo dice che la Chera era nata
per partenogenesi dalla Notte. Nelle mie notti tetre, affiorava dall’io onirico
la fanciulla velata. Quella fanciulla voleva simboleggiare la notte cupa in cui
la mia esistenza si dimenava? Lei la
personificazione della mia solitudine? Su un quotidiano, lessi la frase che
Jung aveva fatto scolpire sulla porta di casa: Vocatus atque non vocatus deus aderit.
E’ un antico oracolo di Delfi, tradotto in latino da Erasmo di
Rotterdam: Invocato o meno, il divino
sarà presente.
Nei primi tempi, non mi preoccupai del sogno ricorrente e di quelle
frasi che come una spada di Damocle mi pendevano sul collo. Andavo regolarmente
in facoltà e continuavo le ricerche d’immunoistochimica coi dottorandi. Il
ricordo dell’incubo notturno riemergeva nei momenti di minore concentrazione
sul lavoro, quando volevo riposarmi con la mente, oppure subito dopo la lezione
in aula. Più volte stavo per bloccarmi in aula davanti alla platea degli
studenti, avendo ravvisato nel volto di una ragazza coi capelli neri e le
lunghe sopracciglia ad arco quello della donna velata che mi appariva
negl’incubi notturni. Tempo dopo, sbirciando dalla finestra dello studio in
facoltà, vidi la studentessa che in aula aveva attirato la mia attenzione. Una
bella ragazza dai capelli lisci, nero corvini, divisi in due bande e tenuti
stretti alla nuca da un tupè. Camminava con lo zaino sulle spalle e la mano
nella mano affianco al ragazzo.
Guardando meglio, conobbi il dott. Rinaldi. Era lui il fidanzato. Dissi
bravo il Rinaldi, complimenti. L’unico nesso tra la donna dei miei incubi e la
fidanzata del Rinaldi che stava passando per il cortile della facoltà era la
mia mente stressata, in preda agl’incubi notturni. Quella studentessa aveva una
forte rassomiglianza con la donna velata che nel sogno pronunciava contro di me
frasi minacciose. Oppure ero io a vederne la stretta rassomiglianza. Mentre la
osservavo nel cortile della facoltà, si era girata in direzione della mia
finestra e forse aveva visto che la osservavo. Scattai subito indietro,
chiudendo la tendina.
Più cercavo di non pensare all’incubo notturno e più ci rimuginavo.
Cercai di spiegarmene il significato. Speravo che una volta inquadrato
l’evento, la paura mi sarebbe scemata e con essa, quei sogni terrificanti.
Heidegger ne era convinto: l’Uomo è una mescolanza di manifestazione e di
nascondimento.
La parte recondita della mia psiche emergeva nell’incubo notturno col
volto velato di una bella dea pagana, ammonendomi di un addiveniente pericolo.
Oppure, come diceva Jung, l’apparizione della fanciulla era dovuta al fatto che
la dimensione immateriale della realtà del mondo circostante si rivela nella
sua autenticità con la trascendenza divina. La metafisica è dunque reale quanto
la fisica? Un passo dell’Iliade accrebbe il sospetto. Prima di addormentarmi,
mi ero messo a leggere alcuni versi dell’Iliade di Omero:
L’auree bilance
sollevò nel cielo
il gran Padre, e due Chere entro vi pose
di mortal senno eterno: una di Achille,
l’altra di Ettorre: le librò nel mezzo,
e del duce troiano il fatal giorno
cadde, e ver l’Orco declinò. Dolente
allor Febo lasciollo in abbandono.
Per gli antichi,
il destino di ognuno sarebbe insito in statue simboliche, custodite presso il
Padre Giove. Frantumandosi una di quelle statue, la vita dell’eroe la cui
immagine a quella statua corrispondeva, si spezzava. Poteva essere quello il
pericolo incombente su di me? Un mio collega, un neuropsichiatra della II
Facoltà di Medicina di Roma e con vari incarichi alla Tuscia di Viterbo, mi
spiegò che vediamo la realtà del mondo esterno con computazioni inconsce,
effettuate dal cervello, di volta in volta. L’infinità dei calcoli
computazionali all’interno del nostro cervello è la trasduzione immediata del
cosiddetto mondo sensibile. Sapevo queste cose perché le insegnavo agli
studenti, ma il collega neuro-psichiatra le affrontava nella pratica, avendo
diversi incarichi anche negli ospedali e numerosi pazienti da curare. Mi disse
che alcuni dei suoi pazienti soffrivano di disturbi di paura e di ansia ed
avevano delle connessioni alterate tra la corteccia pre-frontale ed il Nucleus accumbens. Avrei dovuto dunque
farmi fare una TAC al cervello?”
Gli chiesi, ma senza far capire che ne ero interessato in modo diretto,
glielo chiesi come un quesito fuoriuscito dalle mie ricerche scientifiche:
“Nel sonno, alcune aree cerebrali
agiscono sulla bidimensionalità dei ricordi?”
Mi disse che nel sonno viene a mancare la
terza dimensione, propria del mondo reale e per questo il cervello comincia ad
elaborare immagini simboliche, quelle che costellano i nostri sogni. Come il
collega faceva intendere, il sogno contiene rappresentazioni che nel mio caso
specifico, sarebbero state condizionate da una intensa attività dell’amigdala,
la parte profonda del cervello correlata alle sensazioni negative della paura.
Inoltre, potevano esserci connessioni difettose tra corteccia pre-frontale e Nucleus accumbans. Gli chiesi: “A che
sono dovuti i sogni ricorrenti?”
“Ne soffri?”
Dovevo confidarmi con qualcuno che ne
sapesse più di me dal punto di vista scientifico:
“Vedo una donna che mi si para
davanti…una donna velata di nero.”
Fu sbrigativo. Parandosi sotto
l’architrave del suo studio come una sentinella, disse:
“I sogni
ripetuti possono significare l’impossibilità a svolgere un compito, un’azione
superiore alle proprie possibilità, la presenza di un ostacolo, più o meno
esplicito.”
Avevamo fatto il liceo
classico assieme e filone con le rispettive fidanzate. Perciò in onore dei
vecchi tempi, fu più esplicito:
“C’è qualcuno che ti mette
i bastoni tra le ruote in dipartimento?”
“Sto divorziando.”
“Può essere questo. Devi
scoparti qualcuna…oppure…”
“Oppure?”
“Giocati i numeri al lotto.
Coi sogni ricorrenti si vince, così dicono.”
“Ciao.”
Mi prendeva in giro coi numeri del lotto.
Non m’invitò ad entrare e mi chiuse la porta in faccia per la fretta. La sua
vita era affastellata dal lavoro. Non mi offesi per la porta chiusami in
faccia. Lo faceva con tutti, forse perché aveva sempre fretta e non voleva
perdere tempo con lunghe discussioni e spiegazioni. Non avrei potuto fornirgli
altri particolari: la donna velata, la frase minacciosa in greco antico, il
terrore che mi attanagliava quando la donna velata mi appariva regolarmente
ogni notte in sogno…la sensazione che la donna velata esistesse per davvero, ma
non nei miei incubi.
Come neuropsichiatra, poteva spargere la
voce in giro che ero mezzo pazzo o del tutto pazzo, nuocendo alla mia già
traballante reputazione.
Lobi frontali, problemi d’interconnessione
tra cellule nervose. Input cerebrali aberranti. Da lì si originavano i miei
incubi? Tra me e me, ripetevo le nozioni che da anni spiegavo agli studenti del
mio corso: I lobi frontali sono stati gli ultimi a svilupparsi
nell’evoluzione del cervello umano e ne costituiscono più del 40% del volume
totale. I lobi frontali sono anche gli ultimi a connettersi col resto della
materia cerebrale, nell’individuo giovane. Di fatto, tale connessione si
completa intorno al ventesimo anno di vita. Nel maschio, la maggiore ampiezza
ed asimmetria dei lobi frontali potrebbe incrementare
la predisposizione alla malattia schizofrenica, nel senso che uno squilibrio
dei mediatori chimici, o di circolazione sanguigna, o un alterato rapporto
sostanza grigia/bianca in questa regione anatomica, troverebbero condizioni di
amplificazione patologica negli asimmetrici parametri morfo - strutturali.
…Parametri morfo-strutturali non congeniti
alla realtà…predisposizione alla malattia schizofrenica…lobi frontali
difettosi…cos’altro mai poteva essere?
Non saprei come e in quale filone della sf inserire questo racconto di Giuseppe che, comunque, ritengo superbo e molto suggestivo.
RispondiEliminaCol presente racconto, ho voluto evidenziare la discrepanza tra gli eventi della scienza e quelli della psiche umana, compreso il paranormale.
RispondiElimina