venerdì 27 gennaio 2017

LA DONNA VELATA DI NERO di Giuseppe C. Budetta

La donna velata, o meglio, da come mi sembrava nel sogno, la giovane ammantata con una specie di burka nero, mi appariva come un idolo di altri tempi. Al suo cospetto, avevo prima un senso di terrore e poi una profonda riverenza, un timoroso assoggettamento della mia persona, una sensazione che avevo da bambino in chiesa, davanti alle imponenti statue dei santi benedicenti. Diradandosi la nebbia, l’immagine della fanciulla era affiancata da una casetta di campagna e da una quercia centenaria. Da sveglio, mi sembrò che la casetta con la gigantesca quercia fosse stata simile a quella lasciatami in eredità dagli avi. La casetta a due piani, con ampio terrazzo verso Salerno, sorgeva su una collinetta non distante da Paestum. Avevo capito che era quello l’edificio decadente da sfondo alla fanciulla che mi visitava nei sogni, profferendo con delicata voce sempre le stesse frasi che in italiano vogliono dire: Sono l’ombra di te. Sono la nera Chera e non ad altri, ma a te voglio dire queste cose: temo che non sfuggirai al pericolo.
 Eγώ εμί τν σκιάν σο. Eγώ εμί τν Κρα μέλαιναν κα οκ  λλολλοις ‘αλλ σο τατα λέγω: Φοβέω μ κ φευγόσεις το κινδύνου.
   Quale pericolo mai incombeva su di me? Perché al risveglio ricordavo le frasi minacciose?
Quelle frasi nascevano forse dalle profondità del cervello? oppure prendevano forma dal buio della sfera inconscia? Avevo studiato il greco classico ai tempi del liceo e poteva essere che a livello inconscio me lo ricordassi. In me, abitava forse un altro essere che cercava di emergere alla vita?
 Cercavo di non pensarci, ripetendomi che era un sogno. Uno di quei sogni ricorrenti che dopo qualche mese svaniscono dalla mente, così come arrivati. Nella Teogonia, Esiodo dice che la Chera era nata per partenogenesi dalla Notte. Nelle mie notti tetre, affiorava dall’io onirico la fanciulla velata. Quella fanciulla voleva simboleggiare la notte cupa in cui la mia esistenza si dimenava?  Lei la personificazione della mia solitudine? Su un quotidiano, lessi la frase che Jung aveva fatto scolpire sulla porta di casa: Vocatus atque non vocatus deus aderit.
E’ un antico oracolo di Delfi, tradotto in latino da Erasmo di Rotterdam: Invocato o meno, il divino sarà presente.
Nei primi tempi, non mi preoccupai del sogno ricorrente e di quelle frasi che come una spada di Damocle mi pendevano sul collo. Andavo regolarmente in facoltà e continuavo le ricerche d’immunoistochimica coi dottorandi. Il ricordo dell’incubo notturno riemergeva nei momenti di minore concentrazione sul lavoro, quando volevo riposarmi con la mente, oppure subito dopo la lezione in aula. Più volte stavo per bloccarmi in aula davanti alla platea degli studenti, avendo ravvisato nel volto di una ragazza coi capelli neri e le lunghe sopracciglia ad arco quello della donna velata che mi appariva negl’incubi notturni. Tempo dopo, sbirciando dalla finestra dello studio in facoltà, vidi la studentessa che in aula aveva attirato la mia attenzione. Una bella ragazza dai capelli lisci, nero corvini, divisi in due bande e tenuti stretti alla nuca da un tupè. Camminava con lo zaino sulle spalle e la mano nella mano affianco al ragazzo.
Guardando meglio, conobbi il dott. Rinaldi. Era lui il fidanzato. Dissi bravo il Rinaldi, complimenti. L’unico nesso tra la donna dei miei incubi e la fidanzata del Rinaldi che stava passando per il cortile della facoltà era la mia mente stressata, in preda agl’incubi notturni. Quella studentessa aveva una forte rassomiglianza con la donna velata che nel sogno pronunciava contro di me frasi minacciose. Oppure ero io a vederne la stretta rassomiglianza. Mentre la osservavo nel cortile della facoltà, si era girata in direzione della mia finestra e forse aveva visto che la osservavo. Scattai subito indietro, chiudendo la tendina.     
Più cercavo di non pensare all’incubo notturno e più ci rimuginavo. Cercai di spiegarmene il significato. Speravo che una volta inquadrato l’evento, la paura mi sarebbe scemata e con essa, quei sogni terrificanti. Heidegger ne era convinto: l’Uomo è una mescolanza di manifestazione e di nascondimento.
La parte recondita della mia psiche emergeva nell’incubo notturno col volto velato di una bella dea pagana, ammonendomi di un addiveniente pericolo. Oppure, come diceva Jung, l’apparizione della fanciulla era dovuta al fatto che la dimensione immateriale della realtà del mondo circostante si rivela nella sua autenticità con la trascendenza divina. La metafisica è dunque reale quanto la fisica? Un passo dell’Iliade accrebbe il sospetto. Prima di addormentarmi, mi ero messo a leggere alcuni versi dell’Iliade di Omero:
L’auree bilance sollevò nel cielo
il gran Padre, e due Chere entro vi pose
di mortal senno eterno: una di Achille,
l’altra di Ettorre: le librò nel mezzo,
e del duce troiano il fatal giorno
cadde, e ver l’Orco declinò. Dolente
allor Febo lasciollo in abbandono.
Per gli antichi, il destino di ognuno sarebbe insito in statue simboliche, custodite presso il Padre Giove. Frantumandosi una di quelle statue, la vita dell’eroe la cui immagine a quella statua corrispondeva, si spezzava. Poteva essere quello il pericolo incombente su di me? Un mio collega, un neuropsichiatra della II Facoltà di Medicina di Roma e con vari incarichi alla Tuscia di Viterbo, mi spiegò che vediamo la realtà del mondo esterno con computazioni inconsce, effettuate dal cervello, di volta in volta. L’infinità dei calcoli computazionali all’interno del nostro cervello è la trasduzione immediata del cosiddetto mondo sensibile. Sapevo queste cose perché le insegnavo agli studenti, ma il collega neuro-psichiatra le affrontava nella pratica, avendo diversi incarichi anche negli ospedali e numerosi pazienti da curare. Mi disse che alcuni dei suoi pazienti soffrivano di disturbi di paura e di ansia ed avevano delle connessioni alterate tra la corteccia pre-frontale ed il Nucleus accumbens. Avrei dovuto dunque farmi fare una TAC al cervello?”
Gli chiesi, ma senza far capire che ne ero interessato in modo diretto, glielo chiesi come un quesito fuoriuscito dalle mie ricerche scientifiche:
“Nel sonno, alcune aree cerebrali agiscono sulla bidimensionalità dei ricordi?”
Mi disse che nel sonno viene a mancare la terza dimensione, propria del mondo reale e per questo il cervello comincia ad elaborare immagini simboliche, quelle che costellano i nostri sogni. Come il collega faceva intendere, il sogno contiene rappresentazioni che nel mio caso specifico, sarebbero state condizionate da una intensa attività dell’amigdala, la parte profonda del cervello correlata alle sensazioni negative della paura. Inoltre, potevano esserci connessioni difettose tra corteccia pre-frontale e Nucleus accumbans. Gli chiesi: “A che sono dovuti i sogni ricorrenti?”
“Ne soffri?”
Dovevo confidarmi con qualcuno che ne sapesse più di me dal punto di vista scientifico:
“Vedo una donna che mi si para davanti…una donna velata di nero.”
Fu sbrigativo. Parandosi sotto l’architrave del suo studio come una sentinella, disse:
I sogni ripetuti possono significare l’impossibilità a svolgere un compito, un’azione superiore alle proprie possibilità, la presenza di un ostacolo, più o meno esplicito.”
Avevamo fatto il liceo classico assieme e filone con le rispettive fidanzate. Perciò in onore dei vecchi tempi, fu più esplicito:
“C’è qualcuno che ti mette i bastoni tra le ruote in dipartimento?”
“Sto divorziando.”
“Può essere questo. Devi scoparti qualcuna…oppure…”
“Oppure?”
“Giocati i numeri al lotto. Coi sogni ricorrenti si vince, così dicono.”
 “Ciao.”
Mi prendeva in giro coi numeri del lotto. Non m’invitò ad entrare e mi chiuse la porta in faccia per la fretta. La sua vita era affastellata dal lavoro. Non mi offesi per la porta chiusami in faccia. Lo faceva con tutti, forse perché aveva sempre fretta e non voleva perdere tempo con lunghe discussioni e spiegazioni. Non avrei potuto fornirgli altri particolari: la donna velata, la frase minacciosa in greco antico, il terrore che mi attanagliava quando la donna velata mi appariva regolarmente ogni notte in sogno…la sensazione che la donna velata esistesse per davvero, ma non nei miei incubi.
Come neuropsichiatra, poteva spargere la voce in giro che ero mezzo pazzo o del tutto pazzo, nuocendo alla mia già traballante reputazione.
Lobi frontali, problemi d’interconnessione tra cellule nervose. Input cerebrali aberranti. Da lì si originavano i miei incubi? Tra me e me, ripetevo le nozioni che da anni spiegavo agli studenti del mio corso: I lobi frontali sono stati gli ultimi a svilupparsi nell’evoluzione del cervello umano e ne costituiscono più del 40% del volume totale. I lobi frontali sono anche gli ultimi a connettersi col resto della materia cerebrale, nell’individuo giovane. Di fatto, tale connessione si completa intorno al ventesimo anno di vita. Nel maschio, la maggiore ampiezza ed asimmetria dei lobi frontali potrebbe incrementare la predisposizione alla malattia schizofrenica, nel senso che uno squilibrio dei mediatori chimici, o di circolazione sanguigna, o un alterato rapporto sostanza grigia/bianca in questa regione anatomica, troverebbero condizioni di amplificazione patologica negli asimmetrici parametri morfo - strutturali.
…Parametri morfo-strutturali non congeniti alla realtà…predisposizione alla malattia schizofrenica…lobi frontali difettosi…cos’altro mai poteva essere?
 

2 commenti:

  1. Non saprei come e in quale filone della sf inserire questo racconto di Giuseppe che, comunque, ritengo superbo e molto suggestivo.

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  2. Col presente racconto, ho voluto evidenziare la discrepanza tra gli eventi della scienza e quelli della psiche umana, compreso il paranormale.

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